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MERCOLEDI’ 7 LUGLIO

Proiezione unica ore 21.30

Regia: Lee Isaac Chung

con: Steven Yeun, Ye-ri Han, Yuh Jung Youn, Alan S. Kim, Noel Cho, Will Patton

Genere: Drammatico

Durata: 115 min

STILE CLASSICO E CAST STRAORDINARIO PER UN RACCONTO DI FORMAZIONE CHE È UN INNO AL MULTICULTURALISMO AMERICANO.
Recensione di Emanuele Sacchi

Anni ’80: Jacob e la sua famiglia, immigrati sudcoreani stanchi di sopravvivere grazie a lavori come il sessaggio dei polli, si trasferiscono dalla California all’Arkansas. Jacob vuole avviare una coltivazione in proprio e rivendere i prodotti del suo lavoro nelle grandi città. La sua ambizione richiede enormi sacrifici e la moglie Monica è sempre meno disposta a concederne, specie per le complicazioni cardiache del figlio David. Pur di mantenere la famiglia unita Jacob accetta che si trasferisca da loro la suocera, Soonja: a differenza di Jacob, la donna è rimasta ancorata alle tradizioni coreane e si dimostra tutto fuorché corrispondente all’immagine tradizionale della nonna.

La collocazione temporale del quarto film di Lee Isaac Chung è solo in parte dovuta a un’esperienza autobiografica. Sono anche gli anni del reaganismo e della deregulation, gli anni in cui i piccoli agricoltori d’America soffrono, stritolati da un sistema spietatamente competitivo e sempre meno propenso all’assistenza.

Su Jacob però il sogno americano ha attecchito e per lui lo spirito dei pionieri e il riscatto individuale procedono in maniera inscindibile. La sfida che questi ingaggia contro la malasorte e la natura sa di Sisifo che spinge il fatidico masso o di – come il nome proprio suggerisce – Giacobbe che sogna una scala verso Dio e le sue promesse, in un’ossessione che non conosce ostacoli e finisce per contare più di quel che avviene al contorno.

Jacob vuole fornire un prodotto che restituisca il sapore della lontana patria a quei 30 mila coreani che ogni anno arrivano negli Stati Uniti. Ma per intraprendere questo viaggio deve immergersi a capofitto nelle contraddizioni d’America e del suo entroterra più isolato e impenetrabile, dove uomini che interpretano la religiosità in senso quasi animista possono rivelarsi di buon cuore e ragazzini apparentemente razzisti rivelarsi buoni amici.

È impossibile afferrare il cuore d’America, ce l’hanno raccontato generazioni di romanzieri che spesso hanno raccontato proprio storie di immigrati e di nuovi pionieri, pronti a conquistare una fetta di terra promessa contro tutto e tutti. Minari si inserisce in questa tradizione, giocando sull’innesto di elementi coreani – alcune pietanze tipiche, la gestione delle emozioni, lo spirito imprevedibile della nonna -, divenuti più familiari per il pubblico occidentale anche grazie al premio Oscar 2020 di Parasite, in un racconto classico americano.

La metafora della pianta che dà il titolo al film, seminata da Soonja e cresciuta rigogliosa nel cuore dell’Arkansas è un simbolo, semplice ma efficace, del potere del multiculturalismo e della natura inevitabilmente policroma su cui si fondano gli Stati Uniti d’America, arricchiti dalla diversità nonostante l’intrinseca difficoltà nell’accettare quest’ultima.

È tutta coreana, invece, la sensibilità verso il rapporto che intercorre tra David e Soonja: una relazione complessa che si sviluppa in un affetto così forte da divenire quasi un transfert spirituale di protezione dall’ostilità di cui è capace la natura. Senza slanci temerari, con uno stile classico nella scelta delle immagini in esterno e del montaggio così come delle musiche che le accompagnano, Chung si avvale di un cast straordinario – soprattutto grazie alla veterana Yoon Yeoh-jeong (The Housemaid, In Another Country) e al piccolo Alan Kim – e confeziona un delicato racconto di formazione, destinato a incontrare i favori di un pubblico ampio e diversificato.